Accompagnare
La vera sfida non è vietare o permettere, ma restare accanto ai nostri bambini e ragazzi. Presenza, regole e fiducia.
“La mia tesi centrale in questo libro è che queste due tendenze – l’iperprotezione nel mondo reale e la sottoprotezione nel mondo virtuale – sono le ragioni principali per cui i bambini nati dopo il 1995 sono diventati la generazione ansiosa.”
The Anxious Generation - Jonathan Haidt
Quando ho letto questa frase, ho subito pensato ai miei figli.
E a tutti quei momenti in cui mi chiedo se sto facendo la cosa giusta nel gestire il loro rapporto con la tecnologia.
Qualche giorno fa, la più piccola era seduta al tavolo della cucina con il computer aperto, intenta a caricare su Vinted un annuncio per vendere alcuni manga che non legge più.
Ha scattato le foto, scritto la descrizione, scelto il prezzo.
Io ero lì accanto, presente ma senza mettermi in mezzo.
Non era un gioco. Non era un compito. Era qualcosa di più: un esercizio di autonomia dentro uno spazio digitale, ma guidato.
È da qui che parte questa riflessione: dall’accettare che oggi la vera sfida per noi genitori è non vietare tutto, ma nemmeno lasciare fare tutto. Accompagnare.
Il nostro compito di adulti non può ridursi a uno dei due estremi che vedo troppo spesso:
da un lato, divieti totali, rigidi, a volte anacronistici,
dall’altro, libertà assoluta, senza filtri, senza regole, senza supervisione.
Non credo che serva vietare tutto, ma nemmeno possiamo permettere che tutto sia concesso, senza misura.
Mia figlia ha dieci anni.
Ama i manga, la musica, il basket.
È sveglia, veloce, come tanti della sua età.
Ed è naturalmente attratta dal digitale.
Non è pronta per gestirlo da sola. Ma non è colpa sua.
È una fase. E come tutte le fasi, se non è accompagnata, rischia di trasformarsi in una perdita di controllo.
Lo dicono anche i dati.
Secondo le rilevazioni di Save the Children, oggi oltre un bambino su tre tra i 6 e i 10 anni usa il cellulare ogni giorno, con un picco del 44,4% nel Sud Italia.
Solo pochi anni fa, la media nazionale era il 18,4%.
Un salto enorme in pochissimo tempo.
Nella fascia 11–13 anni, la situazione è ancora più chiara: l’82,2% usa la messaggistica istantanea, il 45,4% frequenta social network, il 39,3% utilizza l’e-mail.
C’è anche chi si informa online (18,5%), chi esprime opinioni su temi sociali (11,3%) o chi segue corsi (9,6%).
Piccole percentuali, certo, ma che dimostrano che il digitale può essere anche spazio di crescita, se guidato nel modo giusto.
Quello che mi colpisce, più dei numeri in sé, è la normalità con cui tutto questo avviene.
Per molti ragazzi, lo smartphone è la porta principale per comunicare, giocare, esprimersi. troppo spesso questa porta viene aperta senza che nessuno sia lì a spiegare cosa c’è fuori.
Secondo le stime, il 62,3% dei preadolescenti ha già un account social, nonostante la legge – e il GDPR – fissi a 14 anni l’età minima per il consenso al trattamento dei dati (o 13 con l’autorizzazione dei genitori).
E allora la domanda è: siamo davvero pronti a lasciarli soli lì dentro?
L’American Academy of Pediatrics ha usato una formula che mi ha colpito:
“I genitori dovrebbero essere i ‘media mentor’ dei propri figli, aiutandoli a imparare a usare la tecnologia in modo sicuro, responsabile e sano.”
Mentori. Non censori. Non spettatori. Adulti che accompagnano.
Nel nostro caso, abbiamo scelto di cominciare da un gesto semplice.
Niente TikTok, niente social, niente scroll infiniti.
Però un account Vinted, sì. Aperto e gestito insieme. Da grandi appassionati di Cash or Trash quali siamo.
Un piccolo spazio dove imparare a fare, a gestire, a riflettere sul valore delle cose.
Ogni annuncio diventa un’occasione per parlare di soldi, di scelte, di comunicazione. È una forma di educazione. Digitale, ma anche relazionale.
E forse è proprio questo il punto.
Se lasciamo che la tecnologia entri nella vita dei nostri figli come uno tsunami, senza argini e senza guida, è naturale che li travolga.
Ma se siamo lì con loro, a costruire senso dentro ciò che fanno, allora le cose cambiano.
Il digitale non è il nemico.
Ma va attraversato con presenza, con regole, con limiti chiari.
E con quella disponibilità ad ascoltare, mediare e osservare che – in fondo – è la base di ogni forma di educazione.
Non esistono soluzioni perfette.
Ma esistono piccoli tentativi quotidiani che, messi insieme, fanno la differenza.
Perché accompagnare, davvero, non vuol dire sapere tutto.
Vuol dire esserci. E restarci.
E io, nel mio piccolo, speriamo che me la cavo!