C’erano una volta il campo di terra battuta sotto casa, le partite improvvisate tra amici, le ginocchia sbucciate e i genitori che tifavano dalla recinzione senza insultare gli arbitri.
C’è ancora tutto questo, in certi contesti. Tuttavia sempre più spesso, lo sport giovanile in Italia – e non solo – ha smesso di essere un gioco. È diventato un business.
Un sistema che muove tanti soldi tra academy private, stage a pagamento, tornei internazionali, scouting precoce, consulenze di “orientamento sportivo” con parcelle da professionisti. Un mondo che vende sogni, visibilità, promesse di carriera.
E che troppo spesso finisce per trattare i ragazzi come prodotti e non come persone da far crescere.
Allenatori, coach o educatori?
A mio parere uno dei nodi più critici è quello relativo al ruolo degli allenatori.
O, meglio, degli educatori sportivi, perché è questo che dovrebbero essere: guide capaci di accompagnare bambini e adolescenti in un percorso di crescita, umana prima ancora che tecnica.
Invece, troppo spesso, troviamo figure che dello sport giovanile hanno fatto un ripiego. Ex atleti, professionisti mancati o adulti senza una reale vocazione educativa, che allenano più per necessità (economiche) che per scelta.
Così, più che educare alla crescita, orientano le loro azioni agli interessi della società a cui appartengono o a dinamiche proprie degli ambienti di business e non sportivi.
Anziché mettere al centro i ragazzi, rispondono alle logiche di risultato delle società. O peggio, a interessi economici più o meno dichiarati.
Il risultato è un’idea distorta di sport: dove vincere conta più che partecipare, dove chi è indietro resta indietro e dove il talento precoce vale più dell’impegno, della costanza, del benessere. Uno sport che smette di educare e comincia a escludere. Che non forma persone, ma classifica corpi.
Uno sport che in qualche modo perde la caratteristica di gioco e che rischia di far perdere ai ragazzi parte della loro gioventù.
Un’industria chiamata sport giovanile
Dietro l’apparenza di partite domenicali e tornei di quartiere, lo sport giovanile si è trasformato in un settore economico vero e proprio, con numeri da capogiro.
In Italia coinvolge oltre 7 milioni di ragazzi tra i 3 e i 19 anni e rappresenta quasi un terzo del valore complessivo dello Sport System nazionale. Parliamo di 30 miliardi di euro di ricavi annui, pari all’1% del PIL.
Solo in costi di iscrizione, le famiglie italiane versano 1,4 miliardi di euro all’anno. A questi si aggiungono 2,1 miliardi di euro spesi in abbigliamento e attrezzature sportive.
Anche i media beneficiano del pubblico giovane: tra live streaming, app e social, i ricavi legati agli under 20 superano i 200 milioni di euro all’anno.
Non sorprende, allora, che molte società sportive si comportino sempre più come aziende: con bilanci, strategie di marketing, obiettivi economici e attenzione maniacale alla visibilità. Gli orari delle gare? Le scelte tecniche? Orientate a chi porta sponsor o può diventare un asset da valorizzare.
Il problema, però, è che questa logica industriale si infiltra anche nei settori dove dovrebbe prevalere l’educazione. Dove contano la fatica condivisa, la sconfitta che insegna, il tempo speso a imparare, non a performare.
E invece oggi rischiamo di avere un sistema che esclude chi non può permetterselo, premia solo chi eccelle e trasforma il talento in merce.
E i ragazzi, nel frattempo?
Nel frattempo, i ragazzi crescono. Qualcuno ce la fa. Qualcuno molla. Altri si spengono lentamente, schiacciati da aspettative troppo alte, da una competizione insensata, da un ambiente che misura il valore solo in base ai risultati.
E pochi, troppo pochi, riescono a vivere lo sport per quello che dovrebbe essere: un laboratorio di relazioni, un gioco serio, un allenamento alla vita.
La responsabilità non è di un singolo attore. È di tutti: famiglie, società sportive, istituzioni, media. Di un sistema che ha bisogno di fermarsi a riflettere. Di tornare a farsi delle domande scomode.
A cosa serve davvero lo sport giovanile? Chi stiamo mettendo al centro? Cosa vogliamo che resti nei ragazzi, una volta che il fischio finale sarà suonato?
Torniamo al campo di terra battuta
C’è ancora tempo per invertire la rotta. Per mettere al centro il gioco, non il profitto. Le persone, non le performance.
Bisogna formare allenatori che siano prima di tutto educatori. Che abbiano davvero voglia di far crescere i ragazzi. Dobbiamo impegnarci a puntare su società che credono nell’inclusione. Per ricordarci che lo sport, quello vero, non è solo risultato: è relazione, sacrificio, comunità.
Perché tra una medaglia e un ragazzo sereno, io non ho dubbi su cosa valga di più.