Khvicha: il ragazzo che guardava crescere le mele
I frutti più dolci sono quelli che sai aspettare, proteggere, custodire finché non sono pronti.
"Ho imparato che nella vita tutto è possibile, purché tu abbia la convinzione e la volontà di fare tutto quello che è in tuo potere per realizzarlo."
Khvicha Kvaratskhelia
Certe storie iniziano con un dettaglio che sembra insignificante.
Da bambino, Khvicha Kvaratskhelia si sedeva ad aspettare che le mele crescessero. Non per fame, non per noia, ma per una ragione che solo chi ha amato davvero qualcosa può capire.
Quando Kvicha era ragazzino, le estati trascorrevano lente a Tsalenjikha, nel cuore delle montagne caucasiche della Georgia. Tra la sua casa e il fiume si estendeva un grande prato verde, delimitato da un cancello di ferro con punte affilate. Era un campo da calcio perfetto, se non fosse stato per quelle maledette punte che bucavano ogni pallone.
Quel cancello c’era da sempre, tanto che anche suo padre Badri da piccolo aveva perso decine di palloni così.
Khvicha però trovò una soluzione che nessuno aveva mai immaginato, neanche il padre: mettere su ogni punta una mela.
In questo modo il pallone rimbalzava via, intatto. E ogni giugno, all’arrivo dell’estate, ripeteva quel rituale. Aspettava che sugli alberi spuntassero i frutti e raccoglieva le prime mele mature per posizionarle con cura, creando una barriera silenziosa tra lui e tutto ciò che poteva fermare i suoi sogni.
E giocava dall'alba al tramonto, finché nel cortile non rimaneva più neanche un filo d'erba.
Per capire Khvicha bisogna partire da qui. Da Tsalenjikha, città di appena 25.000 abitanti che ha regalato al mondo giganti come il poeta Terenti Graneli e l'eroe Meliton Kantaria, l'uomo che issò la bandiera sovietica sul Reichstag nel 1945. Una terra dove l'ingegno è la risorsa più preziosa e la parola data vale più di una firma.
L'inventiva di Khvicha non è casuale: è un'eredità mingreliana, fatta di coraggio e tenacia che scorre nel sangue. A Tbilisi conservano ancora una vecchia videocassetta che mostra Badri segnare una tripletta in Champions League con la maglia del club azero FK Shamkir. Khvicha passò ore a studiare quei calci piazzati, imitandone ogni movimento, rubando ogni piccolo segreto.
Chi conosce bene Khvicha non si stupisce affatto. Da piccolo si divertiva a correre dritto verso i muri e all'ultimo istante sterzava di novanta gradi senza rallentare.
Dormiva con il pallone. Era sempre con il pallone. Un Holly Hutton georgiano.
A Tbilisi aveva imparato l'arte del dribbling sui campetti di cemento, dove cadere significava farsi male sul serio. Sul cemento o resti in piedi, o ti fai male. E lui restava sempre in piedi.
Questa tecnica l'ha portato al Napoli, dove lo hanno ribattezzato prima Kvaradona, poi Kvaravaggio: trasformando il suo calcio in qualcosa di più nobile, artistico, irripetibile.
Oggi il suo volto domina le strade di Tbilisi. Temur Ugrekhelidze, capo scout della Dinamo, lo aveva scoperto a dieci anni, colpito dal suo coraggio nel puntare sempre l'avversario. Non aveva paura di nessuno, nemmeno a dieci anni.
Il primo giorno all'accademia coincise con la visita di Cristiano Ronaldo. Anni dopo, quando la Georgia eliminò il Portogallo dall'Europeo, Khvicha si scusò con CR7 per quella vittoria. Ronaldo gli regalò la sua maglia. Come si fa con i campioni veri.
Non è mai stato il più forte fisicamente, cresceva piano, ma proprio questo lo ha protetto dagli infortuni. Nei momenti più difficili della famiglia, l'accademia Dinamo divenne la sua casa: scuola, campo d'allenamento, futuro tutto in un posto solo.
Khvicha è diventato il simbolo di cosa sia possibile sognare per un ragazzo georgiano. Sua madre gli rimprovera di non festeggiare abbastanza i traguardi raggiunti. Lui risponde sempre allo stesso modo: "Non c'è ancora niente da celebrare, c'è una finale da vincere."
Ma adesso anche questo traguardo è stato raggiunto.
All'accademia Dinamo lo aspettano. Ha promesso che tornerà con la coppa della Champions League. Berranno vino georgiano direttamente dalla coppa con le grandi orecchie.
Khvicha da bambino proteggeva i suoi sogni con le mele e ancora oggi non ha mai smesso di proteggere quello che ama.
A differenza di tanti ragazzini viziati, ha imparato presto ciò che molti capiscono troppo tardi:
i frutti più dolci sono quelli che sai aspettare, proteggere, custodire finché non sono pronti.
Una mela alla volta. Un sogno alla volta.
Articolo liberamente tradotto e adattato da:
The story of PSG’s Khvicha Kvaratskhelia – the boy who watched the apples grow.
Jacob Whitehead - The Athletic