Certe cose le diamo per scontate finché non ci fermiamo a pensarci davvero.
Napoli è una delle pochissime grandi città al mondo ad avere una sola squadra di calcio. Non c’è il derby. Non ci sono rivali cittadini con cui contendere il primato o superare. C’è solo il Napoli. C’è Napoli. E basta.
Non è un semplice dettaglio. È la chiave di tutto.
Perché quando una città intera si riconosce in una sola maglia, il calcio non è più solo una questione di sport. Diventa una lingua che si parla senza bisogno di parole. Un modo per stare al mondo. Uno specchio in cui ci si riflette anche quando si perde. Altrove il tifo divide. Qui unisce. Somma passione ed emozioni. Ed è da qui che bisogna partire, se si vuole davvero capire cosa significa il Napoli per chi vive Napoli.
Negli studi sul comportamento collettivo, il tifo calcistico è spesso analizzato attraverso la lente del senso di appartenenza.
Henri Tajfel e John Turner, con la loro teoria dell’identità sociale, spiegano che gli esseri umani tendono a classificarsi in gruppi — “noi contro loro" per intenderci — e in questo modo danno forma alla propria identità. E quando quel "noi" coincide con la città intera, il processo diventa trasversale, profondo, capillare.
Il Napoli, in questo senso, è un potente dispositivo identitario.
Non è solo la squadra della città: è la città.
In contesti dove esistono più club, prendiamo per esempio Roma, Milano, Torino, il tifo è scelta, distinzione, rivalità intestina. A Napoli no. Il tifo per il Napoli è una condizione, quasi un istinto. E questa unicità spiega perché ogni vittoria della squadra diventa automaticamente una vittoria della città intera. E ogni sconfitta, una ferita condivisa.
Non è solo passione. È integrazione. È identità culturale.
La psicologia sociale ci dice anche che la condivisione delle emozioni ne amplifica l’intensità. Guardare una partita da soli è coinvolgente. Ma farlo insieme — allo stadio, nei bar, nelle piazze — genera quel fenomeno chiamato “contagio emotivo”: esultare insieme, soffrire insieme, cantare all’unisono crea una forma di sincronizzazione collettiva che rafforza il legame tra le persone.
A Napoli questo accade su scala cittadina.
La vittoria di ieri sera del quarto scudetto, per esempio, non è solo sport. È un evento sociale identitario. È un momento in cui la città si riconosce, si ritrova, si sente intera.
Un momento in cui Napoli torna al centro, non perché qualcuno glielo concede, ma perché ci si è messa da sola. Con la sua voce, i suoi colori, la sua gente.
E poi c’è la sfera personale.
Sono cresciuto con l’idea che vincere lo scudetto fosse un evento legato a quell’unico irripetibile evento, quasi mitologico, della parentesi Maradoniana. Una di quelle cose che si raccontano, ma non si vivono. E invece, eccoci qui, a contarne quattro. Due in tre anni. Con la sofferenza, perché anche e soprattutto così si vince. Soffrendo, lottando e impegnandosi a testa bassa.
Non so dire se questo scudetto sia più bello degli altri. So però che è diverso.
È arrivato in un momento in cui la città ha imparato ad ascoltarsi un po’ di più. In cui anche chi è lontano ha sentito, forte, quella chiamata silenziosa che solo Napoli sa mandarti.
Una città. Un popolo. Una squadra.
E oggi, un’altra pagina da raccontare.